
Lapide romana ritrovata nel 1562 |
La
storia moderna del promontorio dell’Arma incomincia con la battaglia
che fu combattuta nella piana che si estende alla destra del torrente
Argentina fino alle falde della collina dei Castelletti, tra i liguri ed
i Romani, battaglia nella quale battaglia i liguri furono sconfitti e
costretti a cedere i territori.
Tito Livio fa risalire questa battaglia all’anno 181 a.c. (Tito Livio, decade 4, libro 10, cap. II ).
Per difendere i luoghi conquistati, come era loro consuetudine i
Romani, costruirono sul promontorio un castello, che viene indicato con
il nome di Castellum II, in relazione al Castello I, che era quello di
Castel d’Appio di Ventimiglia. Nel corso delle lotte tra Cesare e
Pompeo, il castello fu smantellato dai pompeiani. Marco Valerio
Caminate, parente di Cesare, ritornando dalla Gallia, lo fece
ricostruire a proprie spese e in memoria del fatto fece apporre una
lapide marmorea. Questa lapide tornò alla luce nel 1562, durante gli
scavi per la costruzione dell’attuale fortezza e fu incastonata sopra la
porta di quest’ultima.
La lapide è nota per la disputa sorta tra gli
studiosi sulla sua autenticità. Dal giorno della sua scoperta, al testo
dell’epigrafe è stato dato il seguente significato: “Alla vittoria
dell’eterno invitto Giove Ottimo Massimo, Marco Valerio Caminas,
restauratore del castello. Autolycus”. Nell’aprile del 1984, per
interessamento della sopraintendenza archeologica della Liguria, il
prof. Giovanni Mennella dell’Università di Genova ne ha potuto fare un
preciso ed approfondito studio che ha posto fine alla querelle che per
oltre cinquant’anni ha diviso gli studiosi pro e contro l’autenticità
della lapide.
Quest’ultima
in marmo
bianco
venato, di
forma
rettangolare,
misura 35 cm
di base per
27 cm. di
altezza. Il
testo,
inscritto su
sette righe,
è delimitato
da una
cornice
modanata. I
caratteri
dell’iscrizione
possono
essere fatti
risalire
alla prima
metà
imperiale
romana, a
cavallo tra
il secondo
ed il terzo
secolo d.C.
Nel corso
dell’esame
effettuato
sulla
lapide, il
Mennella ha
potuto
rilevare “in
modo netto
le
differenze
paleografiche
fra le linee
1-6 e la 7:
quest’ultima
fu eseguita
in un
secondo
tempo e con
uno
scalpello di
passo
diverso da
quello usato
per le altre
lettere, che
nell’insieme
sono
abbastanza
eleganti,
pur non
potendosi
attribuire
alla prima
età
imperiale,
datazione
già proposta
per la
lapide”.
La lettura
che fa il
Mennella
dell’iscrizione
è ben
lontana
dalla prima
interpretazione
data dagli
studiosi. La
disputa
incentrata
sui due
vocaboli
della linea
5 “Castelli
restitutor”
e da tutti
accolti fino
al 1984 nel
loro
significato
di
“restauratore
del
castello”,
viene così
risolta dal
Mennella
stesso: “nella
terminologia
tecnica
latina,
però, il
castellum
contraddistingue
anche un
impianto di
distribuzione
dell’acquedotto,
che riversa
l’acqua
nelle
condutture e
i suoi resti
furono visti
e descritti
proprio dal
più convinto
assertore
(il Donetti)
dell’autenticità
della
lapide,
senza che ne
lui ne gli
altri
disputanti
si
accorgessero
dell’importanza
della
segnalazione:
fra i ruderi
della
fortezza
c’era
infatti una
cisterna
nella quale
si adunava
l’acqua di
una sorgente”,
con una
vasca “coperta
da una volta
a tutta
monte
costrutta
con pietre
calcaree,
convenientemente
squadrata a
rettangolo,
di evidente
fattura
romana. La
via Aurelia
passava
sotto la
vasca, per
modo che
l’acqua
defluiva da
questa
mediante
apposita
bocca che
versava
sulla strada”.
Alla luce di
questa nuova
ipotesi,
l’epigrafe
deve ora
essere letta
nel seguente
modo: “Alla
vittoria
dell’eterno
invitto
Giove Ottimo
Massimo
M(arco) Val(erio)
Caminas,
restauratore
della
cisterna
dell’acquedotto.
Autolycus.”
Il Mennella
riscontra
anche che il
termine
Autolycus
sull’ultima
riga
dell’epigrafe
fu
probabilmente
aggiunto in
un secondo
tempo, forse
in età
imperiale
avanzata.
Quindi la
suddetta
lapide era
probabilmente
sottoposta
ad un
piccolo
monumento
onorario
probabilmente
dedicato al
Dio Giove
Ottimo
Massimo.
Nel
X secolo hanno inizio sulle coste della Provenza e della Liguria le
scorribande dei Saraceni. I Saraceni, insieme variegato di popolazioni
Berbere provenienti dai paesi del Nord Africa, attraversano lo stretto
braccio di mare che divide la Spagna dall’Africa nell’anno 711 e già nel
714 hanno il dominio completo della Spagna. Con un instancabile lavorio
fatto di spedizioni militari ed incursioni corsare i saraceni
insediarono le loro basi navali acquistando il controllo della Sicilia,
delle Baleari e, a periodi alterni della Sardegna e della Corsica,
mentre lo stesso Carlo Magno si oppose a loro allestendo (780) due
flotte (la “Classis Aquitanica” e la “Classis Italica”). Le misure
difensive non sortirono però l’effetto voluto: nell’839 Bari e Taranto
passarono sotto il dominio saraceno che si estese quindi ai territori
della Puglia, della Campania (846) ed in tutto il Meridione d’Italia.
Mentre la situazione conflittuale si protraeva
ecco un episodio del tutto casuale dare ai fatti che ci riguardano più
da vicino una improvvisa accelerazione. Liutprando, Vescovo di Cremona
(920 circa -972) ci narra che, intorno all’anno 889, una ventina di
saraceni vennero sospinti da una tempesta lungo le coste della Francia
Meridionale prendendo terra nel Golfo Sambracitano (vicino all’odierna
Saint Tropez).

Le invasioni saracene nella Provenza e nell’Italia del nord-ovest durante il X secolo |
I
naufraghi si resero ben presto conto delle immense potenzialità di quel
posto: una baia accogliente nascosta in una profonda insenatura, la
presenza di boschi e montagne in cui nascondersi, la totale assenza di
resistenza armata. Appena rientrati in Spagna organizzarono una
spedizione ed in gran numero fecero vela verso il luogo prescelto:
giunti colà costruirono un porto, occuparono i boschi e le montagne
costruendovi una rete di fortificazioni, bastioni, posti di guardia,
torri di avvistamento e rifugi sotterranei: nasceva così il “Fraxinetum
Saracenorum” a guardia del quale svettava, dall’alto di una cima
rocciosa, l’inespugnabile fortezza di “La Garde Freinet”. Un caso
sfortunato volle che lo sbarco di Frassineto cadesse in un periodo nel
quale il trono di Provenza era vacante ed il territorio tormentato da
lotte civili, fu così facile per i nuovi arrivati insediarsi e dare il
via ad una lunga serie di scorrerie.
Le
scorribande dei Saraceni sulle nostre coste continuarono fino al 972,
anno nel quale Guglielmo Conte d’Arles e futuro Marchese di Provenza
organizzò una crociata, per liberare le genti italiane e francesi dal
flagello saraceno di Frassineto, che ebbe esito positivo. Seguirono
alcuni secoli di relativa calma per i nostri territori, fino a quando
nel XVI secolo le nostre coste divennero terra di conquista per i pirati
barbareschi, che furono attivi in tutto il Mediterraneo occidentale e
lungo le coste atlantiche dell’Africa, partendo dalle loro basi poste a
Tunisi, Tripoli, Algeri, Salé e altri porti del Marocco. A seguito di
questi ripetuti sbarchi la Repubblica di Genova ingiunse a tutti i
comuni rivieraschi di sua dipendenza di costruire, nei punti più
avanzati sul mare e più propizi alla difesa delle coste liguri, dei
fortilizi.

La fortezza dell’Arma |
Con
decreto del 9 febbraio 1562 il Governatore Ducale di Genova ingiungeva
ai comuni di Bussana e di Taggia di costruire, sul promontorio
dell’Arma, quella che è l’attuale fortezza.
Il decreto stabiliva che il forte si costruisse a
spese dei due comuni di Taggia e Bussana, nella proporzione di tre
quarti a carico del comune di Taggia e di un quarto a carico del comune
di Bussana, detto quarto non doveva però oltrepassare i 150 scudi. Il
fortilizio si doveva armare nelle stesse proporzioni, e doveva essere
presidiato da un capitano, o custode, nominato dal Governo di Genova, e
da otto uomini, dei quali sei mandati da Taggia e due da Bussana (v. Archivio Comunale di Bussana Delibera del Parlamento 21 Dicembre 1562 e 28 Febbraio 1563).
La costruzione della fortezza terminò nel 1565,
gli uomini di Taggia pretesero che il forte ed il luogo su cui sorgeva
spettasse al comune di Taggia, e fecero apporre sulla porta del forte
stesso una iscrizione marmorea, nella quale a sé soli attribuiscono il
merito della costruzione.